Lontano dalle ferree leggi non scritte dell’arte contemporanea, dai suoi complessi sistemi di regole culturali ed economiche e dai suoi canoni estetici e filosofici, respira e cresce un’attualità pittorica locale indubbiamente più circoscritta negli obiettivi intellettuali, ma non per questo meno vivace e desiderosa di darsi una precisa identità poetica. È un’arte che anche a Rimini possiede piccole ‘scuole’ storiche, correnti stilistiche, continue e reciproche contaminazioni formali tra i diversi esponenti nonché un vivace mercato di collezionisti. La caratteristica fondamentale che lega insieme i suoi diversi rivoli risiede in un duplice radicamento spirituale: quello in un’estetica di moderata ‘modernità’, risalente ecletticamente alle esperienze sorte tra Ottocento e Novecento (un periodo sentito come tradizione classica da conservare e rinnovare) e quello nella terra d’origine, nazionale e regionale, interpretata nelle sue atmosfere sentimentali e nei suoi orizzonti di senso, nelle sue cifre emotive e simboliche. La ricerca di Luciano Filippi s’inserisce con originalità in questo cerchio ben delimitato.
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Gli oggetti che interessano la sua pratica sono pochi ma molto differenziati: scafi e vele di barche, paesaggi che a volte sfiorano l’astrazione, cattedrali gotiche e barocche contemplate nell’Europa del Nord e in Sicilia. Unica è però la poetica del colore che li collega tutti in un solo, consapevole discorso pittorico che si ricollega al ‘magistero’ silenzioso e lontano di Monet, mediato dai tardi eredi riminesi dei Macchiaioli italiani: la devozione estrema per la luce, l’amore per il suo rivelarsi spontaneo nelle e sulle cose. Il fattore luminoso non è inteso però come una fascinazione per il rarefatto e per il trasparente, per il delicato e l’impalpabile: la luce è tale, per Filippi, solo quando si fa materia, quando si coagula come linfa o sangue rappreso nella superficie scabra o nei profili mobili delle cose. Al di là dal rappresentare l’immutabile, la luce è rivelazione e carne del divenire incessante, di ciò che non permane e trascolora; è soprattutto la discreta vibrazione delle cose cercate e dipinte.
La visione si dà come in un sogno, ma niente ci conduce verso il disparire delle forme: le linee precise ma lievissime, oppure immerse in una libera e volontaria indecisione non ci narrano l’evento di una scomparsa ma la volontà delle immagini a trasformarsi, da tenue illusione ottica, in argilla, terra, creta, fango e pietra, a scegliere la dimensione della presenza, della stratificazione di sostanze molteplici e contemporaneamente vive nell’occhio e nella densa tavolozza del pittore. Così le cattedrali si manifestano come concretizzazione del cielo, secondo una via verticale che va dall’alto verso il basso, mentre i paesaggi schiumano di essenze vegetali e acquose quasi tattili. Allo stesso modo le vele ventose, rese in sovrapposizioni di movimenti, non danno solo l’impressione immediata della leggerezza ma evocano spesse atmosfere salmastre, cristallizzazioni marine, tagli di lame invisibili ma vere, graffi di sale fatto aria, di sabbia che impasta di sapido adriatico i legni e i teli rendendoli nella corrosione più vivi di fibra.
Alessandro Giovanardi, 2008 la luce rappresa, Galleria dell'Immagine Rimini